Dosier: Gestualidad en el teatro griego antiguo.
Los gestos y el cuerpo en el texto y en la escena
La forma in movimento. Il corpo dell’attore nella tradizione scoliastica: una prima indagine
Sommario: Questo articolo analizza e si propone di evidenziare i gesti e le strategie corporee dell'attore tragico così come gli scoli li descrivono al lettore. Se ne evince che gli attori tragici utilizzavano strategie e schemi che non solo avevano valenze semantiche ma mettevano in gioco anche abilità specifiche per provocare le emozioni degli spettatori. L'articolo si propone di sostenere che gli studiosi ellenistici osservavano le strategie corporee degli artisti senza pregiudizi riguardo al dominio degli attori nel raggiungimento degli effetti tragici. Certamente bisogna tenere conto che queste fonti trattano di rappresentazioni risalenti al V secolo: la memoria dell'erudizione antica rientra nel modo in cui viene considerato il fenomeno tragico. Questo articolo non parla della performance ma della registrazione della sua memoria.
Parole Chiave: gesti, strategie corporee, emozioni tragiche, scoli.
Form in Motion. The Actor's Body in the Scholia Tradition: an Initial Research
Abstract: This paper analyzes and aims to highlight the gestures and bodily strategies of the tragic actor as the scholia describe them to the reader. According to them, tragic actors used strategies and patterns that not only had semantic valences but also brought into play specific skills to provoke the emotions of spectators. The article aims to argue that Hellenistic scholars observed the performers' bodily strategies without prejudice regarding the actors' dominance in achieving tragic effects. Certainly, it must be kept in mind that these sources deal with performances dating back to the fifth century: the memory of ancient scholarship is part of the way in which the tragic phenomenon is considered. This article is not about performance but about its memory.
Keywords: Gestures, Body Strategies, Tragic Emotions, Scholia.
In questo contributo voglio avviare una prima analisi sul tema del corpo e del gesto dell’attore1 nel teatro tragico del V secolo, limitandomi per lo più ad una osservazione di quanto riportato e documentato nella tradizione scoliastica. Per molto tempo le notazioni dei commentatori antichi sono state fortemente sottovalutate da certa filologia:2 posta la necessità di valutare caso per caso la validità documentale di tali preziose annotazioni, in questo articolo voglio definire due aspetti specifici. Intendo comprendere quale sia il loro valore nel quadro dello studio della consapevolezza teorica e teatrologica degli antichi, nel contesto di un lavoro che vuole definire primariamente alcune strategie gestuali e l’incidenza del valore del corpo sulla scena a partire dalla documentazione scoliastica. Questo primo obiettivo di indagine si vuole avvalere delle metodologie di indagine legate all’antropologia teatrale e ad un’ottica di comparazione con civiltà teatrali che possano essere per noi interessanti paradigmi di confronto, come quelle asiatiche.
Cercherò di mostrare contestualmente come, pur utilizzando e avendo ereditato gli Alessandrini le categorie di lettura dello spettacolo tragico adoperate nella Poetica da Aristotele, non ne sposino per nulla la polemica contro gli attori e in particolare contro la cosiddetta decadenza recitativa del tardo V secolo e del IV:3 al contrario inglobano la recitazione come elemento organico della tragedia in quanto genere performativo in cui il Testo Verbale non è altra cosa e non è elemento predominante rispetto alla unitarietà del Testo Spettacolare, che nasce dall’intrecciarsi di molti codici in un codice multilineare.4 I commentatori antichi registrano le convenzioni, gli usi, le strategie fisiche, in definitiva gli schémata, utilizzati dagli attori e li riportano come elementi strutturali della tragedia intesa come performance.5 Vedremo che non mancano di registrare nozioni legate alla ricezione e alle risposte emotive connesse a tali strategie gestuali e alla dimensione fisica dell’attore sulla scena in generale. Uno studio più approfondito degli elementi visivi generali della tragedia nelle testimonianze scoliastiche sarebbe necessario, come il lettore avrà modo di constatare dai pochi accenni che si renderanno necessari: tuttavia esula dall’argomento che mi propongo, dunque se ne accennerà sporadicamente senza poterne discutere con maggiore profondità.
Va anche precisato un ulteriore aspetto. In ogni studio di tipo teatrologico bisogna essere sempre consapevoli che ogni documento sullo spettacolo, ivi compresi i quelli sulle pratiche recitative, non è lo spettacolo, ma costituisce traccia della sua memoria.6 Parimenti nella tradizione scoliastica noi rinveniamo memorie e registrazioni di una pratica scenica. A volte questa pratica dista del tempo rispetto alla sua registrazione che, spesso, si appoggia a documentazioni precedenti che sono anch’esse registrazioni di pratiche, memorie. Talvolta, va anche aggiunto, sono testimonianze di pratiche e saperi fisici che, in un contesto convenzionale come quello del teatro greco, si pongono in continuità con una tradizione, nel nostro caso tradizione attoriale, corporea, gestuale: questi saperi fisici non sono museificati nella pratica e nel ricordo del teatro del V secolo ma attraversano, nella teoria come nella pratica, nella storiografia così come nell’osservazione diretta, differenti fasi e forme dello spettacolo antico. Nella nostra osservazione quindi ci troviamo a confrontarci con saperi attoriali che si diffondono in un arco cronologico ampio e sincronicamente tra differenti forme teatrali e tra differenti performer, dal pantomimo, al mimo, al danzatore, all’aedo, al retore.7
Qual è dunque, per cominciare, l’atteggiamento della filologia alessandrina8 nei confronti del nostro argomento? Dopo la morte di Aristotele all’interno della sua scuola persiste l’attenzione per le questioni che riguardano la poetica e la recitazione. Sappiamo che il suo successore, Teofrasto, scrisse diverse opere sulla poetica e sulla recitazione (περὶ ὑποκρίσεως), laddove il concetto di recitazione era trasversale tra retorica e performance mimetiche, includendo in sé tutte le pratiche del corpo e della voce impegnate nella pratica performativa.9 Di questa fase non ci è rimasto quasi nulla ma i commenti scoliastici, diverse opere successive come i Deipnosofisti di Ateneo, alcuni trattati più tardi, spesso di età bizantina, solo per citare alcuni esempi molto notevoli, conservano un corredo di notizie che non possono che risalire ad una fase più antica, spesso formulazioni ellenistiche di fonti ancora precedenti.10 A partire da Aristotele, dunque, questi aspetti sono oggetto di riflessione speculativa ma anche di studio. Lo stesso avviene dopo la sua morte e in età alessandrina. Non ho lo spazio, né è mio obiettivo in questo contesto, rintracciare l’origine e il percorso di queste notizie che a noi sono giunte solo attraverso la pesante sintesi operata per lo più all’interno della tradizione scoliastica. Tuttavia ritengo importante proporre una scelta di alcuni di questi giudizi, per la più parte risalenti alla figura di Aristofane di Bisanzio, che testimoniano l’interesse e la consapevolezza teatrologica di Aristofane grammatico e in generale della filologia post-aristotelica in merito allo spettacolo e in particolare al lavoro e alla presenza dell’attore.
Non discuterò di volta in volta se le notizie si debbano fare risalire ad Aristofane o meno, in quanto il mio interesse non è tanto volto a tracciare il ritratto di una precisa figura, quanto quello di evidenziare una tematica e una tendenza di scuola.11 Mi dedicherò maggiormente invece a classificare le notizie, che ritengo risalgano tutte a fonti precedenti giunte agli scoliasti per il tramite dello studio dei grammatici alessandrini per enfatizzare e comprendere le dinamiche legate al lavoro dell’attore.
In via preliminare è opportuno proporre alcune brevi precisazioni in merito al concetto e alla nozione euristica di presenza dell’attore. Per chiarire tale concetto, punto teorico centrale del presente articolo come dei miei studi in generale, prendo a prestito le parole di Eugenio Barba, tratte dal suo trattato di antropologia teatrale, utili perché introducono più di un punto di vista di metodo su cui torneremo a diverse riprese: "In una situazione di rappresentazione organizzata, la presenza fisica e mentale dell’attore si modella secondo principi diversi da quelli della vita quotidiana. L’utilizzazione extra-quotidiana del corpo mente è ciò che si chiama “tecnica” (1993, pp. 23).
La téchne attoriale è al centro di riflessioni specifiche già a partire dal V secolo.12 L’analisi teatrologica accomuna le pratiche dei performer, attori e aedi tra gli altri, sotto un’unica categoria in cui le tecniche del corpo mostrano tratti comuni.13 Nello Ione di Platone, per esempio, Socrate discute l’arte del rapsodo. In 532d 7 dichiara, sul rapporto tra rapsodia, téchne ed epistéme: ἀλλὰ σοφοὶ μέν πού ἐστε οἱ ῥαψῳδοὶ καὶ οἱ ὑποκριταὶ καὶ ὧν ὑμεῖς ᾄδετε τὰ ποιήματα (“Voi rapsodi e gli attori e coloro dei quali cantate poemi siete saggi”).14
Questa comunanza di categoria ci invita a riflettere e a studiare le tecniche del performer come simili, benché non identiche. In quest’ottica torneremo a breve per comprendere a pieno la dinamica degli schémata, cioè delle posture convenzionali degli attori greci come anche dei rapsodi, dei pantomimi, dei retori: in una parola dei performers. Studiare la presenza dell’attore significa dunque studiare le tecniche, le scelte fisiche, le modalità che caratterizzano il suo modo di stare in scena, i suoi comportamenti, la gestione del suo corpo nella condizione di rappresentazione, o come suggerisce Barba, nella condizione extra-quotidiana.
Aristotele aveva cercato di proporre l’idea di una tragedia da leggere e concepire in modo svincolato dalle sue contingenze sceniche, siano esse visive o uditive, e aveva tentato di cancellare quanto più possibile, nella tragedia, la dimensione recitativa come parte strutturale del suo linguaggio, seppure con le laceranti e insanabili aporie che ho discusso in altra sede.15 Tuttavia i grammatici che dopo di lui si curarono di studiare nel dettaglio la globalità del fenomeno tragico non sembrano avere particolarmente interiorizzato questo aspetto della sua lezione. Infatti nelle notazioni scoliastiche, che assai parzialmente ci restituiscono i giudizi e i commenti di Aristofane di Bisanzio e degli altri grammatici, non mancano giudizi e analisi riguardanti la messinscena come elemento di struttura.16 Alcune di esse sono dedicate, ad esempio, all’uso delle macchine sceniche, come l’ekkýklema, lette come veri e propri strumenti linguistici e convenzioni rilevanti all’interno del codice tragico. Ma in molte di queste notazioni appare evidente l’intento di osservare la pregnanza della presenza del corpo e dell’attore nei segmenti analizzati. Nello scolio a Coefore 973, viene descritta la dinamica della scena che rivela la mattanza operata da Oreste: "Si apre (ἀνοίγεται) la scena (σκηνή) e sull’ekkýklema si vedono (ὁρᾶται) i corpi (σῶματα) di quanti lui chiama 'i due tiranni del paese'".
Questa notizia, come altre analoghe, è importante in quanto ci aiuta a definire la modalità di una convenzione ricorrente: l’apparizione in scena dell’attore tramite una macchina scenica. Ma di particolare rilievo per noi è l’insistenza che viene posta sul dato del vedere, che mostra come l’intenzione sia di sottolineare un dato visivo come determinante in un punto centrale della tragedia rappresentata ed in realtà dell’intera trilogia di cui è parte: in particolare il dato visivo sottolinea l’apparizione dei corpi degli attori. L’aspetto visivo degli attori e la reazione emotiva alla loro vista sono presenti negli scoli alle Eumenidi, in cui l’ampiezza della notizia e alcune sue caratteristiche necessitano di un breve ma significativo spazio di analisi circa la consapevolezza teatrologica che il commentatore originario esprimeva. Rimando alla nota per i necessari chiarimenti filologici:17 una notizia che io ritengo, a dire il vero piuttosto isolato, degna di attenta considerazione in merito al lavoro di studio sui codici rappresentativi e in particolare sul modello di messinscena delle Eumenidi.18
A mio parere questo tassello si aggiunge a quello precedente letto a proposito delle Coefore, mostrando una modalità nell’impiego dei mezzi spettacolari da parte di Eschilo che è oggetto dell’analisi storiografica del commentatore, plausibilmente Aristofane di Bisanzio. La forza e l’impatto della presenza fisica dei perfomer è enfatizzata, per esempio, nello scolio al v. 49. In questo luogo lo scoliasta spiega la descrizione atterrita della Profetessa di fronte all’apparizione delle Erinni: "v. 49: […] per la paura dello spettacolo dice il paragone con le Gorgoni (πρὸς τὸ φοβερὸν τῆς ὄψεως φησι τὸ Γοργείοισι). Infatti si dice che le Gorgoni recano paura agli uomini, insomma, io vidi, dice, queste alate nella rappresentazione figurata, ma non rapaci [come le arpie]".
Parafrasando la battuta del personaggio lo scoliasta ci fornisce un dato notevole: l’aspetto delle Erinni, analogo alle rappresentazioni delle Gorgoni, produce nella sua estrinsecazione visiva phóbos. Oltre al dato, per nulla secondario, che concerne la qualità emotiva del processo ricettivo, è qui da sottolineare come il commentatore enfatizzi l’incidenza assoluta, in questa scena, dello strumento legato all’ópsis, a quello che il poeta pone in scena, cioè alla sua composizione visiva. Se questi aspetti rimandano alle osservazioni fenomenologiche della Poetica, il punto significativo è che non vi si riscontra alcuna critica negativa: egli descrive un fenomeno e lo presenta come del tutto proprio alla strategia poetica di Eschilo, dimostrando di non cogliere l’invito di Aristotele a considerare ciò come un elemento estraneo alla poetica e non pertinente all’essenza della tragedia.
Gli effetti pragmatici legati al vedere ed in particolare alla presenza fisica dell’attore sono molto evidenti se proviamo a leggere la totalità delle notazioni che costituiscono il commento alle Eumenidi in cui ho ipotizzato una massiccia presenza di precedenti materiali aristofanei: in particolare gli scoli 1 a-b, 49, 64 a-b, appaiono essere parte di un unico disegno, probabilmente, come dicevo nella lunga nota precedente, un unico testo di commento dedicato in particolare all’apparizione di Oreste e delle Erinni e a quella di Apollo. In questi tre testi abbiamo infatti una minuziosa descrizione dell’estrinsecazione visiva della scena. Li propongo in successione sottolineando i punti in cui si evidenzia la volontà del grammatico di sottolineare ruolo e importanza della parte visiva della composizione tragica:
1b: In scena si vede il santuario dell’oracolo (φαίνεται ἐπὶ σκηνῆς τὸ μαντεῖον) e la profetessa esce fuori avendo pronunciato un’invocazione degli dei, come di norma: d’improvviso, avendo visto (ἰδοῦσα) le Erinni, che seggono in cerchio attorno a Oreste [vv. 33 e sgg] descrive tutto agli spettatori (πάντα μηνύει τοῖς θεαταῖς) non come se narrasse le cose che avvengono dietro la skené–infatti questo è un più recente uso euripideo- ma raccontando con stile elegante le cose che la atterriscono (τὰ θορυβήσαντα) in ragione della visione che colpisce (ὑπὸ τῆς ἐκπλήξεως).19
49: […] per la paura dello spettacolo dice il paragone con le Gorgoni (πρὸς τὸ φοβερὸν τῆς ὄψεως φησι τὸ Γοργείοισι). Infatti si dice che le Gorgoni recano paura agli uomini, insomma: Io vidi (εἶδον), dice, queste alate nella rappresentazione figurata, ma non rapaci.
64b: Essendo apparso Apollo consiglia ad Oreste di abbandonare l’edificio dell’oracolo e di fuggire alla volta di Atene. E si verifica una seconda apparizione (φαντασία). Infatti dei meccanismi che girano (στραφέντα μηχανήματα) rendono visibili (ἔνδηλα) le cose all'interno dell'oracolo per come sono. Ed ecco lo spettacolo tragico (ὄψις τραγική), da una parte Oreste che tiene la spada ancora insanguinata, mentre dall’altra le Erinni lo controllano disposte in cerchio.
Risulta a mio parere evidente l’unitarietà di questa notazione che io credo fosse parte o dell’originaria hypóthesis o di un’ampia sezione di commento sul segmento interessato. Esso è descritto con precisione ma soprattutto se ne enfatizza il dato visivo: la presenza in scena dell’edificio scenico, il suo aprirsi a mostrare il proprio interno, l’enfasi dell’ópsis, due volte richiamata, della visione delle Erinni e dell’attore che interpreta Oreste coperto di sangue, la sottolineatura dell’effetto pragmatico sugli spettatori, cioè l’ékplexis e la sua formalizzazione in paura, cioè phóbos, thorybésanta.20 Questa ópsis è l’aspetto visivo della performance e ricorda in modo assai stretto le considerazioni in negativo che Aristotele faceva nel cap. XIV della Poetica (53b 1 e sgg.), dove annotava come pietà e paura (τὸν φοβερὸν καὶ ἐλεεινόν) possano essere suscitati dall’ópsis ma escludeva la pertinenza di ciò con l’arte tragica, in particolare per quanti, con il mezzo del vedere, procurano il mostruoso (teratódes), in questo caso largamente legato al ruolo del lavoro attoriale.21 L’analogia con i brani trascritti è molto forte in termini descrittivi (il mostruoso, il pauroso), ma il commentatore si astiene da ogni censura e anzi appare ritenere che questa forma di visione, questa spettacolarità sia un dato intrinseco e strutturale della tragedia, faccia cioè parte dell’ópsis tragiké. L’organicità di queste notazioni depone a favore di un tratto tutt’altro che estemporaneo circa quella che è una delle tematiche principi della Poetica e senza dubbio la più rilevante per i termini della mia ricerca, verso la quale si deve constatare un atteggiamento opposto a quello aristotelico. Per quanto vengano ereditate dallo Stagirita le categorie di analisi, il loro segno è del tutto diverso: la tragedia consegue i suoi obiettivi specifici tramite ópsis.
Potremmo continuare su questa scia e leggere le tante notazioni analoghe nell’ottica del loro rapporto con la questione della “polemica” aristotelica verso l’ópsis. Mi sembra però più interessante a fini del lavoro che propongo addentrarci maggiormente a definire le strategie gestuali e attoriali che definiscono con più precisione la presenza dell’attore tragico nel punto di vista degli scoliasti.
Proviamo a partire da alcune osservazioni che troviamo nei commenti all’Aiace di Sofocle.22 In particolare voglio concentrarmi sulle osservazioni che riguardano il lavoro dell’attore che interpreta Odisseo nel primo segmento della tragedia. Nella ὑπόθεσις dell’Aiace l’anonimo estensore dice: Δεῖ δὲ τὸν ὑποκριτὴν πανταχόθεν διαβλέπειν ὥσπερ δεδοίκοτα μὴ ὅραθῇ.
La notazione è importante. Non si tratta di un’interpretazione testuale del filologo antico, come a volte succede, perché nessun elemento del testo letterario in realtà afferma o suggerisce che il personaggio di Odisseo agisca con circospezione ispezionando la scena, né tanto meno suggerisce un “atteggiamento” (timore, tensione) che l’attore deve tenere. È vero che al v. 5 Atena fa riferimento al fatto che Odisseo scruti (κυνηγετοῦντα) e misuri (μετρούμενον) le tracce di Aiace, così come si fa riferimento al suo “fiuto” che lo guida correttamente (vv. 7-8), ma questo in sé fa al massimo pensare ad uno che ispezioni un luogo: nessun riferimento esplicito alla circospezione, né allo scrutare ovunque “come uno che temesse di essere scoperto”, cioè all’espressione della paura citata chiaramente dalla fonte, cosa che invece faceva l’attore di prima scena, di norma (δεῖ), all’inizio del prologo dello spettacolo, inizio mimico, ante verba. Che fosse la norma mi sembra denunciato dalla caratteristica della notazione (bisogna, δεῖ), in cui la prescrizione rileva plausibilmente un’abitudine, una convenzione particolare, un “si fa così”, più che un improbabile suggerimento registico. Inoltre va notato, in merito al fatto che sia una notazione di teatro materiale, che lo scoliasta dice l’attore (ὑποκριτής), non si riferisce al personaggio interpretato, come talvolta succede, aprendo margini di ambiguità nell’interpretazione di un passo, ma si concentra su un’azione del performer. Come si diceva in nota si tratta di un commento ai vv. 1-2, in cui lo scoliasta ci illustra l’azione muta che precede il prologo, offrendoci un dato di riflessione importante. Dall’alto dell’edificio scenico, Atena osserva la scena muta, l’attore si aggira circospetto davanti allo stesso edificio sul quale lei è posta. La differente modalità di ingresso che la messinscena prevedeva per i due attori riveste un ruolo nodale in questo contesto: l’attore Atena, entrato dalla skené, è visibile immediatamente, completa il suo ingresso rapidamente, l’attore Odisseo percorre invece tutto lo spazio che dalla parodo lo porta, come vedremo, vicino all’edificio scenico. Il rapporto spazio-tempo è assai differenziato e sottolinea due differenti approcci scenico recitativi che contraddistinguono i diversi ruoli e rapporti spaziali e simbolici tra i due personaggi. Nel tempo-spazio che l’attore Odisseo impiega a raggiungere la posizione di inizio del dialogo con Atena, ha modo di esplicitare del tutto la scena muta descritta nello scolio; il rapporto spaziale-temporale tra i due attori è evidenziato da subito in una scena mimica, progettata e orchestrata dal poeta διδάσκαλος: Atena (in alto nello spazio-entrata breve) Odisseo (in basso nello spazio-entrata lunga e laterale). Le testimonianze non definiscono con precisione quale fosse la dinamica gestuale compiuta dall’attore Odisseo, ma soltanto l’intenzione pragmatica. Tuttavia non è impossibile formulare delle ipotesi per via analogica con altri contesti. Il gesto dell’attore in greco è definito dalla parola σχῆμα (in genere al plurale in questa accezione) che esprime un'articolata dimensione concettuale. Maria Luisa Catoni ha ampiamente studiato tale articolazione all'interno del mondo greco, sotto la lente della comunicazione non verbale, evidenziando come trasversalmente alla globalità delle arti mimetiche, lo schêma fosse un’operazione non verbale immediatamente leggibile nei suoi obiettivi semantici da parte degli spettatori.23 Tra i diversi σχήματα codificati nella cinesica teatrale greca è attestato quello dell’aposkopeîn, il cui significato è determinato “dal contesto situazionale” in cui è eseguito e spesso indicava “lo scrutare, la ricerca”.24 La testimonianza scoliastica ci parla proprio di una ricerca, di uno scrutare (διαβλέπειν) e di un’azione mimica che gli spettatori dovevano avere la possibilità di interpretare immediatamente come tale. Credo plausibile ritenere che l’aposkopeîn fosse la scelta “obbligata” dell’attore che agiva in un contesto comunicativo in cui la convenzionalità, la cristallizzazione degli strumenti di linguaggio e di struttura impiegati, garantivano o meno la comprensione presso il pubblico e quindi la riuscita dell’operazione spettacolare in termini di relazione teatrale, come si arguisce da quanto lo stesso Aristotele dice in Poetica, 1455a 22-30. Per altro la dimensione dello scrutare con attenzione è anche esplicitata verbalmente dalla descrizione che Atena farà di Odisseo ai vv. 4-5, come si è detto poco fa, il che crea un effetto di completamento e di integrazione tra le classi di espressione sulla cui finalità pragmatica (il compiacimento del pubblico nato dalla “complicità” con Atena) mi sono soffermato in altra sede.25 Inoltre questo schêma, tra i possibili ambiti semantici in cui veniva letto, descriveva oltre allo “scrutare” anche il “temere”, come ha argomentato la Catoni : dunque considerando che sappiamo che queste due erano le intenzioni pragmatiche dell’attore e della sua pantomima (“[guarda] da ogni parte come se temesse di essere visto”) appare più che plausibile che l’azione da lui compiuta fosse l’aposkopeîn. Si trattava di un gesto stilizzato e convenzionale, che prevedeva di base una mano alzata davanti al viso e uno spostamento all’indietro dell’asse del corpo sulla torsione delle gambe. Per questa via riusciamo a visualizzare l’effettiva dinamica della scena che veniva eseguita coerentemente alle dinamiche convenzionali di scrittura scenica e verbale entro cui si teneva il poeta.
Vediamone altri esempi. Lo scolio al v. 346 ci offre una notizia ricca di spunti su questa e sulle altre questioni che vado trattando: […] ἐνταῦθα ἐκκύκλημα τι γίγνεται, ἵνα φανῇ ἐν μέσοις ὁ Αἴας ποιμνίοις˙ εἰς ἔκπληξιν γὰρ φέρει καὶ ταῦτα τὸν θεατὴν, τὰ ἐν τῇ ὄψει περιπαθέστερα. δείκνυται δὲ ξιφήρες, ᾑματωμένος, μεταξὺ τῶν ποιμνίων καθήμενος (“Qui c’è un ekkýklema, in modo che appaia Aiace nel mezzo delle pecore. Queste cose colpiscono lo spettatore, quelle più ricche di emozioni suscitate nello spettacolo. Si mostra lui armato di spada, insanguinato, che siede in mezzo agli armenti”).26
Partiamo dal primo dato. Aiace appare attraverso l’ekkýklema. Dopo una lunga attesa lo spettatore vede quello che aspettava, attraverso una macchina che ribaltando lo spazio proietta gli spettatori nello spazio interno. La convenzione generale del teatro greco prevede che qui gli spettatori leggano un cambio di scena, inteso come un cambio di spazio scenico, una scena di interno. Di particolare rilievo è qui stabilire cosa vedano veramente gli spettatori sulla scena, cioè non cosa è previsto venga “raffigurato” all’interno della vicenda sulla base di convenzioni metaforiche che rimandino ciò che si vede ad un significato altro, ma cosa concretamente fosse sulla scena per “rappresentare”, non il referente del segno pertinentizzato dagli spettatori competenti del codice rappresentativo, ma cosa fosse materialmente visto da loro. La fonte ci dice che si vedeva l’attore Aiace impugnare la spada (ξιφήρες), seduto in mezzo agli armenti, insanguinato (ᾑματώμενος).27 Aiace è coperto dal sangue delle bestie che ha macellato, questo è quanto gli spettatori effettivamente vedono. Attorno a lui, che impugna la spada, gli animali macellati. Che si trattasse di elementi di scena, di un “effetto speciale” o di veri animali, ciò che più conta è l’effetto visivo, l’effetto spettacolare, l’effetto sullo spettatore. In merito a questo lo scoliasta è chiaro: lo spettatore (θεατής) è colpito da questi elementi, elementi che suscitano le emozioni più accese (περιπαθέστερα) nello spettacolo, nel guardare (ὄψις): il corpo dell’attore, la forza del suo gesto sono elementi che veicolano il páthos, emozione tragica di enorme importanza.
Nello scolio al v. 815 l’autore evidenzia il ruolo della vista nel suscitare l’impressione emotiva degli spettatori accesa dalla scena del suicidio di Aiace ([…] ὑπ’ ὄψιν ἔθηκεν τὸ δρώμενον˙ ἢ μᾶλλον ἐκπλῆξαι βουλόμενος), che il poeta propone appunto alla vista del pubblico, dando vita ad una innovazione assai rilevante. Anche qui è chiaro come l’autore assuma gli strumenti analitici della tradizione e di Aristotele (ópsis, ékplexis), ma si distacchi dalle censure del maestro, svelandoci quanto Aristotele fosse distante dalla concezione del suo tempo e dalla cultura dei suoi successori e quanto essi abbiano rivisto le sue posizioni alla luce di una lettura dell’evento tragico meno parziale e militante. Ma quanto mi preme maggiormente evidenziare è l’analisi del lavoro attoriale che viene proposta nel segmento finale dello scolio di commento ai vv. 864-865.28
δεῖ δὲ ὑπονοῆσαι ὅτι περιπίπτει τῷ ξίφει καὶ δεῖ καρτερόν τινα εῖναι τὸν ὑποκριτὴν ὡς ἄξαι τοὺς θεατὰς εἰς τὴν τοὺ Αἴαντος φαντασίαν ὁποῖα περὶ τοῦ Ζακυνθίου Τιμοθέου φασὶν ὅτι ἦγε τοὺς θεατὰς καὶ ἐψυχαγώγει τῇ ὑποκρίσει ὡς Σφαγέα αὐτὸν κληθῆναι.
Bisogna supporre che si butti sulla spada e bisogna che ci fosse un attore del tutto potente, così da condurre gli spettatori verso l’immagine di Aiace, come si dice di Timoteo di Zacinto che trasportava gli spettatori e ne catturava l’attenzione (ἐψυχαγώγει) attraverso la recitazione tanto da essere chiamato Uccisore. [in rif. ad Aiace 815]
Su tale fonte bisogna proporre subito, preliminarmente, alcune considerazioni:
Anche sulla scena del suicidio di Aiace abbiamo diverse supposizioni, la maggior parte delle quali mi pare confonda ipotesi legate all’immaginazione del lettore con la pratica scenica.30 Spesso il punto è costituito dalla morte in scena o meno di Aiace. Lo scolio ci dà questa informazione e a conferma che non allude ad un uso successivo, pur se di pochi anni, come potrebbe fare pensare il riferimento a Timoteo di Zacinto, viene lo scolio al v. 815 in cui si anticipava la morte in scena di Aiace. Vi si legge infatti che: "Aiace avendo preparato la spada proferisce un certo monologo prima di morire, infatti sarebbe stato ridicolo se essendo entrato in scena senza parlare si fosse gettato sulla spada. Tali soluzioni sono rare presso gli antichi, infatti erano soliti annunciare gli avvenimenti attraverso dei nunzi".
È chiaro che lo scoliasta non si riferisce affatto ad un uso ellenistico ma si riferisce specificatamente alla realtà scenica di età sofoclea. Tra le perplessità suscitate c’è quella legata alla necessità di avere un attore libero per le scene successive, in particolare per l’esodo della tragedia in cui avremo in scena tre personaggi parlanti (Teucro, Agamennone, Odisseo). In verità non mi sembra che la questione sia davvero inconciliabile. Nel contesto degli studi sul dramma antico abbiamo assistito spesso ad ipotesi tra le più originali e fantasiose e non mi sembra tanto eccentrico ritenere che trafittosi con la spada l’attore Aiace si trascinasse fuori scena, dove si sarebbe sostituito il suo corpo con un κωφόν προσῶπον, una comparsa muta, al momento della rivelazione del cadavere. L’uso delle comparse mute è largamente attestato nelle fonti e nella pratica scenica del V secolo, quindi quanto ci dice lo scolio non è in nessun modo inconciliabile con le convenzioni attestate negli anni in cui presumiamo sia stato rappresentato l’Aiace.31 Ma concentriamoci sui dati performativi: quello più interessante è il riferimento alla “forza” dell’attore, alla qualità della sua presenza scenica. Il riferimento non è alla forza fisica ma è alla capacità di trascinare gli spettatori (ἄξαι τοὺς θεατὰς) verso l’immagine (φαντασία) di Aiace. Cosa intende dire il commentatore? In ogni epoca, ogni descrizione di teatro materiale paga il conto ad una profonda ambiguità: di teatro è difficile parlare, tanto che i grandi maestri hanno spesso trascorso l’intera loro esistenza nel tentativo di rendere in scritti duraturi non tanto il “senso” del teatro, quanto semplicemente le modalità empiriche di una pratica scenica. Credo che, come in ogni discorso che concerne un mondo “altro”, sia necessario colmare la distanza e l’assenza attraverso uno sforzo esegetico che parta dal senso primo e autentico della parole. Per altro il commentatore dimostra di sentire la necessità di essere compreso, di registrare fedelmente una tensione tra scena e platea. Ecco che propone l’esempio di Timoteo che all’epoca doveva essere noto. Mutatis mutandis, come se raccontando il livello di tensione tra scrittura drammaturgica e scrittura scenica, noi oggi facessimo riferimento a Dario Fo che “trascina” il suo pubblico verso l’immagine di Bonifacio VIII nel celebre pezzo di Mistero Buffo. Tralasciando gli esempi contemporanei, che servono solo per creare dei paradigmi di intesa con il lettore e rischiano di essere fuorvianti in quanto riferiti ad una sensibilità e a un contesto diversi da quello greco, torniamo alla fonte. Attraverso la recitazione (ὑποκρίσει) l’attore Timoteo otteneva un effetto psicagogico sugli spettatori e li trascinava tanto da passare in leggenda. Ma la notizia è esplicativa del pezzo precedente, sta spiegando in cosa consiste la forza dell’attore, il suo trascinare gli spettatori verso l’immagine, la visione di Aiace. La parola φαντασία è legata al verbo φαντάζω, cioè rendere visibile, presentare agli occhi ed è prossima all’ ὄψις, all’atto del vedere, come attestato da Aristotele in De Anima 429a2.32 Lo scoliasta qui ci parla di un attore che trascina coloro che guardano verso l’apparizione, l’immagine scenica del personaggio, è un dato concreto quello che ci viene offerto che sottolinea la tensione visiva degli spettatori ma soprattutto la forza psicagogica dell’attore che interpreta questa parte. Va notato che è la seconda volta che ci troviamo a fare i conti con una azione scenica senza parole, si era già vista quella dell’attore Odisseo in apertura, importantissima in quanto introduceva attraverso dati visivo performativi, scenici e attoriali, vari elementi, per altro credo determinanti, per la lettura globale della tragedia. Per la seconda volta ci viene offerta una descrizione di un aspetto di ordine performativo che enfatizza la modalità della gestione del corpo e mette in relazione la recitazione con la finalità pragmatica di essa. Questo aspetto dello spettacolo era stato già evidenziato dallo scoliasta in merito al v. 815, di cui si accennava sopra. Dopo avere descritto l’azione dell’attore che piantava la spada per terra e avere spiegato i motivi della novità sofoclea rispetto ad Eschilo nelle Tracie, che aveva annunciato la morte di Aiace per via di un nunzio, mostrando invece la scena lo scoliasta dice: "Ugualmente volendo proporre una novità e non volendo seguire la soluzione dell’altro [cioè Eschilo,] Σοφοκλῆς] ὑπ’ ὄψιν ἔθηκεν τὸ δρώμενον˙ ἢ μᾶλλον ἐκπλῆξαι βουλόμενος, "Sofocle propose l’azione allo sguardo o piuttosto volendo colpire".
Ritorna, nella testimonianza dello scoliasta, l’idea che Sofocle colpisse attraverso una soluzione scenica l’attenzione dello spettatore, attraverso una soluzione finalizzata evidentemente alla fruizione visiva degli spettatori (ὑπ’ ὄψιν), in cui l’aspetto della centralità nell’uso dell’attore e della sua modalità recitativa come linguaggio specifico della tragedia vengono fuori con centrale rilievo: la relazione emotiva è dunque suscitata dalla percezione visiva dello spettacolo, dall’elemento visivo-spettacolare della modalità recitativa dell’attore. Se ci riferiamo alla completezza delle informazioni dateci dai due scoli, emerge che la reazione emotiva degli spettatori è attivata (torna il termine tecnico ἐκπλήσσω) dall’azione mimica e dall’impatto visivo della scena, tale reazione emotiva si configura come incentrata sul páthos, sulla compartecipazione emotiva, già all’apparire in scena di Aiace fino al pezzo in esame, come si arguisce dalle fonti analizzate. Quello che vediamo è nuovamente uno schêma,33 un elemento di gestione del corpo che risponde a strategia convenzionali nelle quali gli elementi biotici prevalgono:34 il commentatore sottolinea la forza, la presenza scenica dell’attore, che colpisce e trascina lo spettatore tramite la dinamicità del gesto, del movimento nello spazio. Il corredato emotivo per gli spettatori ne è testimonianza.
Abbiamo visto poco fa l’importanza nodale della postura fisica nella gestione del corpo in movimento: gli schémata. Come si diceva in avvio, molti osservatori antichi sottolineano la centralità dell’assunzione di posture (schematízasthai) nella hypókrisis. Ateneo nei Deipnosofisti, (21e-22a), con particolare riferimento alla sua direzione del coro, sottolinea come Eschilo fosse un noto inventore di σχῆματα e poggia la notizia su una citazione di Aristofane. Del resto, ci riferisce Ateneo i poeti arcaici come Tespi, Pratina e Frinico era chiamati orchestaí perché erano veri e propri maestri di danza.35 Nella memoria successiva si deposita quindi un’enfasi enorme sul carattere orchestico del lavoro dell’attore nella tragedia e degli schémata in generale, sul valore centrale che il corpo, il movimento e la postura gestuale dell’attore hanno come elementi centrali nella pratica e nella struttura dello spettacolo tragico: su questa sottolineatura può avere giocato il ruolo dominante che il genere della pantomima riveste nel periodo in cui scrive Ateneo, che può essere stato influenzato, nell’enfasi forte data alla notizia, dalla presenza dominante del pantomimo come performer. Tuttavia va detto che Ateneo non ha certamente “inventato” la notizia, quanto può avere posto maggiormente l’accento su un aspetto della memoria, sulla base degli aspetti che di questa tradizione attoriale e performativa erano messi maggiormente in valore dal teatro del suo tempo. Proviamo a leggere quindi i commenti scoliastici e capire cosa ci dicono, oltre a quanto già visto, sulla dinamica, il ruolo e la modalità di tali posture gestuali. Qual è il loro rapporto con la kínesis del corpo di un danzatore?
Restando a Sofocle è interessante leggere lo scolio al v. 226 del Filottete in cui descrive l’ingresso in scena dell’attore: 226 δεῖ γὰρ αὐτὸν ἐξηγριωμένον εἰσφέρειν τῇ ὄψει καὶ τῷ σχήματι, "Bisogna dunque introdurre questi inselvatichito attraverso l’aspetto e la postura gestuale".
Perché il pubblico abbia immediata contezza delle caratteristiche del personaggio di Filottete, il commentatore annota due strategie che si mettevano in atto: l’una riguardava l’aspetto dell’attore, il suo apparire in scena, la seconda la postura gestuale, lo schêma convenzionale che questi doveva assumere, la sua presenza plastica in movimento sulla scena. Vediamo nuovamente che lo schêma richiama immediatamente una condizione che incide sul fruitore al di là delle parole: la gestione fisica del corpo dell’attore, la sua postura, il suo movimento e il suo gesto (i tre elementi costitutivi dello schêma) rispondono a un linguaggio definito e stabilito che è parte della composizione della scrittura scenica e che informano il ruolo e il personaggio già al suo apparire in scena. Dunque si richiama nuovamente ad una modalità convenzionale che si riferiva ad una postura gestuale che lo spettatore poteva immediatamente classificare collegandola ad una categoria di personaggi, i “selvatici”, se non ad uno specifico personaggio, in questo caso Filottete. Lo stesso Aristotele in Poetica 56b5 e sgg faceva, credo, un chiaro riferimento alla capacità di esprimere pensiero (diánoia) e emozioni (páthe) al di là della parola (áneu didaskálias), introducendo subito dopo le posture gestuali che accompagnano l’enunciazione (schémata tês léxeos) e che sono proprio un aspetto, dice lo stagirita, dell’arte dell’attore (hypokritikés) e della sua direzione da parte del poeta didáskalos (56b 10 e sgg).36
Come visto, in alcuni casi i commentatori esaltano l’aspetto visivo dell’apparato scenico, la funzione delle macchinerie e il loro ruolo nell’intreccio allora indissolubile tra scrittura scenica e scrittura drammaturgica, in altri si concentrano sul lavoro dell’attore, sulla sua presenza.
L’attenzione agli σχήματα degli attori è un elemento diffuso e centrale. Oltre all’esempio di Filottete 226, possiamo ricorrere ad alcuni altri che mostrano l’interesse dei filologi antichi per la presenza e il ruolo dell’attore nel determinare aspetti significativi nodali dello spettacolo tragico ma soprattutto per le ulteriori descrizioni di schémata specifici che essi propongono. Nello scolio al v. 80 dell’Edipo Re leggiamo un’osservazione essenziale proprio sulla dinamica recitativa inerente un’esclamazione del personaggio di Edipo, che si augura buone notizie dal cognato Creonte di ritorno dall’oracolo di Apollo: "A buon diritto l’invocazione è rivolta ad Apollo. Infatti nel vaticinio che sarà pronunciato dal dio giace la liberazione. Se dunque Creonte fosse raggiante per una sorte di salvezza come dalla condizione del viso egli è lieto. Nascostamente ci mostra la postura dell’attore come entrò in scena (δείκνυσιν ἡμῖν τὸ σχῆμα τοῦ ὑποκριτοῦ ὁποῖον εἰσῆλθε)".
L’attore greco indossava la maschera, dunque è chiaro che lo schêma di cui parla il commentatore non può che essere la postura gestuale, indicazione per altro evidenziata dall’uso tecnico del lemma σχῆμα.37 Egli ci informa della controscena che l’attore Creonte eseguiva in riferimento al Testo Verbale pronunciato dall’attore Edipo, il che enfatizza fortemente il dato della recitazione e del Testo Visivo nel quadro dell’analisi della tragedia: prima che parli, la postura gestuale dell’attore indica a noi un significato, il responso positivo. Questo dato deve essere leggibile allo spettatore e quindi passa per una postura convenzionale, uno schêma. Delle posture, non è secondario ricordarlo una volta ancora, che si portano dietro la capacità di suscitare emozioni specifiche e complesse negli spettatori.
Gli esempi proposti fin qui ci informano sul valore convenzionale e visivo della postura, letta nei suoi esiti pragmatici dagli spettatori. Alcuni altri ci consentono di muovere un passo in avanti in merito al tema del movimento del corpo. Nell’Edipo a Colono, nel punto in cui il protagonista si appresta a uscire di scena per entrare nell’Ade, lo scoliaste ci fornisce una notizia al v. 1547: "L’attore (ὑποκριτής) non inciampa (οὐ πταίει) ma va via dritto, come condotto dal dio (ἀγόμενος ὑπὸ τοῦ θεοῦ)".
Edipo è cieco e l’attore che lo ha interpretato durante tutta la tragedia si è sempre mosso accompagnato da qualcuno per evidenti motivi di resa scenica. Ora, posseduto dal dio, esce con una precisa e leggibile postura scenica che il commentatore ritiene necessario conservare e che esula di nuovo e chiaramente da quanto può essere contenuto dal testo verbale.38 Per evidenziare la condizione del personaggio che si trova già “in un altrove, nella sfera delle forze invisibili precluse agli altri umani […]” in cui “Ermes sostituisce le figlie nel ruolo di guida del cieco”, interviene una scelta di gestione fisica del corpo dell’attore: agli occhi dello spettatore la nuova condizione di Edipo è palesata, resa manifesta, dall’azione fisica, prima e più fortemente ancora che dal Testo Verbale.39 Ma notazioni del tutto analoghe sulle posture gestuali e sulla kínesis degli attori si trovano in numerosi altri luoghi.
Nello scolio a 1650 della stessa tragedia leggiamo: "[…] coprendo con la mano gli occhi, per non vedere quanto vi è di terribile dell’emozione patita (τὸ δεινὸν τοῦ πάθους), faceva il gesto (ἤγουν τὸ σχῆμα) che si mostra di quelli presi da stupore (τῶν θαυμαζόντων)".
Nuovamente il commentatore registra una precisa postura gestuale durante, questa volta, la rhêsis del messaggero: la postura dello stupore. La strategia fisica è nuovamente sottolineata: non è secondario che non stiamo parlando di quadri in movimento. La lunga “tirata” del messaggero comprende anche scelte di gestione fisica del corpo, degli schémata, che avevano una precisa forza emotiva sulla ricezione degli spettatori. È un aspetto, quest’ultimo, presente nella teoresi platonico-aristotelica, che viene richiamata, come abbiamo visto, dagli scoliasti stessi. La recitazione dei Greci appare una disciplina in cui il lavoro fisico, il ritmo del corpo, il suo apparire, sono dati determinanti: la convenzionalità dello schêma dello stupore, come negli altri casi precedenti, non è dissimile da quello che avviene in altre forme tradizionali, come nelle danze convenzionali asiatiche.
A ribadire la specificità del rapporto tra postura e movimento a cui abbiamo più volte accennato, viene una specifica descrizione che completa idealmente la precedente di Edipo a Colono, 1547. Nell’Ippolito, scolio a 215 leggiamo: "Qui bisogna che l’attore (ὑποκρινόμενον) muovesse se stesso (κινῆσαι ἑαυτόν) sia nella condizione gestuale (σχήματι) sia nella voce (φωνῇ) e al momento in cui dice “vado verso il bosco” faccia un balzo come se lei stessa [cioè il personaggio di Fedra] si mettesse in movimento".40
Nel commento si sottolinea l’aspetto fonico di cui non mi posso occupare in questa sede.41 Nel contempo l’autore osserva la caratteristica della postura (schémati). Non si tratta di una semplice figura del corpo, ma lo schêma si declina attraverso un preciso movimento (kínesis): la postura gestuale è immagine e movimento e si articola secondo una dinamica cinetica che è parte integrante dello stesso σχῆμα. Questa osservazione è ulteriore conferma della prossimità delle strategie attoriale dell’attore tragico alle altre téchnai adoperate nelle performance: tutti gli hypokritaí, siano essi attori, aedi o pantomimi, condividono un patrimonio di saperi e tecniche gestuali che ne informano la recitazione (hypókrisis) in cui il movimento è parte specifica della grammatica posturale delle strategie fisiche.
Nella hypóthesis di Aristofane di Bisanzio all’Agamennone, a proposito della recitazione dell’attore che interpreta Cassandra ci troviamo in un contesto molto simile che è per noi conferma e chiarimento proprio in merito a questa modalità di recitazione, cioè al congiungimento di movimento e postura.42
Nel corso dello spettacolo Eschilo ha avuto modo di creare altri effetti spettacolari quali l'arrivo di Agamennone e del suo corteo su due carri insieme a Cassandra. La magniloquenza del suo arrivo (v. 783), sottolineata dalla sequenza anapestica trionfale eseguita dal coro, serve per accentuare l'effetto dirompente che avrà la rappresentazione della sua caduta sul pubblico (si veda quanto dice Aristotele nella Poetica sulla “caduta” degli eroi a seguito d'una metabolé, per una loro colpa, da una posizione di grande reputazione “τῶν ἐν μεγάλῃ δόξῃ ὄντων”).43 Voglio però concentrarmi solo sull’uscita di scena di Cassandra a seguito della sua profezia: il commentatore ha modo di sottolineare sia la modalità e il lavoro che doveva compiere l’attore, sia i caratteri specifici della reazione emotiva, in cui lo spettatore soggetto-drammaturgico attua le sue strategie ricettive necessarie al completamento della manipolazione teatrale. Nella hypóthesis dell'Agamennone, l'autore ci informa che la scena della profezia di Cassandra e il suo conseguente ingresso nella casa (nella skené, su cui si è concentrata la focalizzazione dell'attenzione) “θαυμάζεται ὡς ἔκπληξιν ἔχον καὶ οἷκτον ἱκανόν”.44 Meraviglia (thaûma) e compassione (oîktos) sono le due emozioni che colpiscono (la parola è una volta ancora ἔκπληξιν) evidentemente gli spettatori, in questa scena. Tra queste emozioni possiamo definire la prima basica, una emozione immediata; la seconda è invece complessa, frutto dell'elaborazione della prima, causata, dice l'alessandrino, dalla dinamica della scena precedente, in particolare dal fatto che Cassandra “[…] strappandosi di dosso le bende, si slancia verso la casa (εἰσπηδᾷ), come una che va a morire (ὡς θανουμένη)”. Se una volta ancora abbiamo testimonianza del “lavoro dello spettatore” rispetto allo spettacolo tragico, va sottolineata ulteriormente la descrizione dell’azione fisica dell’attore. Anche qui non siamo nel quadro di una osservazione testuale: l’attore balza (eispedâ) e l’analogia con le altre osservazioni appena analizzate in cui abbiamo azioni analoghe può offrirci agio ad un passaggio ulteriore. Se infatti appare evidente la forte dinamicità dell’uso del corpo e della sua dislocazione nello spazio scenico, possiamo anche affermare che siamo di fronte ad uno schêma gestuale ricorrente. Il balzo di Fedra, quello di Edipo e quello di Cassandra sono tutti compiuti dall’attore al momento in cui il personaggio si trova di fatto in uno stato di possessione e di sconvolgimento emotivo. È così per Edipo che è consegnato di fatto ad un altro mondo, per Fedra, dominata e posseduta dalla mania erotica, da Cassandra, che ha terminato la sua scena incentrata sulla possessione apollinea. Ecco che i commentatori ci consegnano testimonianza efficace e importante di ricorrenze gestuali e recitative, che corrispondono a pattern precisi e ricorrenti nel lavoro degli attori e a reazioni emotive del pubblico che la teoresi antica osserva, conosce, classifica.45 Una simile dinamica cinetica legata ad un movimento repentino (il balzo) che rompe uno stato di quiete e arriva al medesimo stato di quiete è testimoniato anche dal movimento dell’attore che interpreta il sacerdote nell’Edipo Re: "Avendo detto queste cose l’attore (ὑποκριτής) si getta ai piedi del signore" (Schol. v. 41).
In tutti e quattro i casi sembra di potere dire che abbiamo uno schêma palesemente incentrato su tre momenti: un primo stato di quiete, un turbamento improvviso di questo stato di quiete -cioè un balzo- e infine un nuovo stato di quiete, che in tre dei casi analizzati coincide con l’uscita di scena dell’attore, nell’ultimo con la conclusione del movimento per terra. Questa modalità fisica coincide con una specifica strategie fisica, definita sempre da Barba in diversi luoghi. Scrive Barba (1993, p. 87):
Nell’istante che precede l’azione, quando tutta la forza necessaria è già pronta a liberarsi nello spazio, ma come sospesa e ancora tenuta in pugno, l’attore sperimenta la sua energia sotto forma di sats, preparazione dinamica. Il sats è il momento in cui l’azione viene pensata-agita dall’intero organismo che reagisce con tensioni anche nell’immobilità […] Il sats è il momento in cui l’azione viene pensata-agita dall’intero organismo che reagisce con tensioni anche nell’immobilità. È il punto in cui si è decisi a fare. C’è un impegno muscolare, nervoso e mentale, già diretto all’obiettivo. È il tendersi e raccogliersi da cui sgorga l’azione.
Il libro di Barba, come è noto, scaturisce dalla pratica e dall’osservazione transculturale. Attraverso il confronto tra le pratiche attoriali di attori e danzatori, di chi dunque usa il corpo in condizioni performative extra-quotidiane, Barba ha individuato dei principi che ritornano a diverse latitudini e cronologie teatrali.46 Mi sembra che questa modalità di osservazione consenta anche in questo contesto di chiarire e comprendere una modalità di gestione fisica, dell’energia attoriale, che diversamente rischia di rimanere lettera morta.
Per altro sul funzionamento degli schémata abbiamo una approfondita spiegazione da parte di Plutarco che ci offre degli spunti ulteriori di comprensione della gestione fisica del performer nel contesto greco dello spettacolo antico. Questi ce la propone parlando della pantomima, ma, come ho argomentato altrove, le modalità di gestione fisica di hypokritaí e orchestés credo poggiassero su comuni principi attoriali e la lettura di Plutarco mi sembra che confermi questa ipotesi. In Quaestiones Convivales, 747b il personaggio di Ammonio si trova a dovere spiegare il significato della parola φορά a partire dall’espressione ὀρχεῖσθαι φορὰ κατὰ φοράν.47 Da qui egli parte per discorrere diffusamente su quali siano le componenti (mére) della órchesis.
Disse che esse sono tre: il movimento, la postura e il mostrare (τὴν φορὰν καὶ τὸ σχῆμα καὶ τὴν δεῖξιν):48 “infatti la danza è composta da movimenti e dall’assumere posture (ἔκ κινήσεων καὶ σχήσεων), come il canto dai suoni vocalici e dagli intervalli. Qui sono esse sole [cioè le σχήσεις] i limiti dei movimenti (πέρατα τῶν κινήσεων). Dunque chiamano φοράς i movimenti (κινήσεις), mentre σχήματα le posizioni posturali e le condizioni del corpo (σχήσεις καὶ διαθέσεις), verso le quali i movimenti nel loro portamento trovano la conclusione, allorché disposti nella postura (σχῆμα) di Apollo o di Pan o di una qualche Baccante nel corpo stanno fermi secondo le forme di una pittura.
In questa parte si cominciano a definire con precisione i concetti di schêma e phorá. Una lettura attenta mostra che Plutarco non si allontana dalle osservazioni sul concetto di σχῆμα che abbiamo avuto modo di vedere finora per l’attore tragico e, in altri studi, a partire da Aristotele e segnatamente leggendo le importanti precisazioni di Aristide Quintiliano.49 L’orchestica è composta da kínesis e da schêsis, cioè dal movimento e dall’assumere delle posture. Al momento in cui il danzatore assume una postura pone un limite al movimento, cioè per un verso lo arresta e per l’altro gli dà una forma, cioè il movimento trova compimento in uno σχῆμα che è per l’appunto il disporsi del corpo secondo una forma precisa, convenzionale e leggibile, all’interno del flusso dei movimenti. Tali posture sono convenzionali, tanto che Plutarco ne elenca alcune molto significative: Apollo, Pan, le Baccanti. Il corpo si arresta in questa forma convenzionale e l’autore, attraverso Ammonio, ricorre al paradigma musicale come esempio esplicativo: nel canto abbiamo il suono e l’intervallo di suono, nella pratica del corpo nella danza abbiamo il movimento e la postura. Come nel campo musicale un suono assume senso solo in rapporto ad un intervallo che lo rende significativo, riconoscibile e gli dà forma, così nel quadro di una teoria della presenza del performer Plutarco individua in φορά, quell’intervallo tra due posture che attribuisce loro significato, che le rende leggibili, in quanto separa una forma dall’altra, l’elemento che marca la differenza in un sistema di segni.
In assenza di φορά non è possibile definire il linguaggio del gesto e della postura, in quanto mancherebbe la componente espressiva che scandisce le differenze, esattamente come nel quadro dell’articolazione linguistica ogni suono è definito in rapporto di alterità rispetto all’altro. In questo senso si mostra come per σχῆμα sia da intendersi una postura in rapporto con il movimento e non si dia tale nozione se non in rapporto organico con kínesis. Tale rapporto organico si chiama per l’appunto φορά: questi due concetti (schêma, phorá) non sono separabili tra loro, tanto che Plutarco li tratta insieme, come elementi espressivi che mettono in forma il corpo (sôma). La disciplina del corpo del performer si mostra ampiamente trasversale nella civiltà teatrale greca tra le varie forme spettacolari. Questo aspetto non deve essere sottovalutato: benché sia chiaro che qui l’autore compie le sue valutazioni osservando i fenomeni orchestici e in particolare la pantomima dei suoi tempi, le analogie tra le sue osservazioni e il rapporto tra kínesis e schémata osservato nelle precedenti pagine mi sembra possano offrirci un’immagine più evidente della gestione fisica del corpo dell’attore.
A più forte ragione questo nostro assunto è confermato dalla testimonianza, questa volta nel V secolo, di Aristofane comico. Nell’esodo delle Vespe il comico propone una importantissima parodia delle danze tragiche (quelle per le quali Ateneo esaltava il ruolo fondante di Eschilo e prima ancora di poeti come Tespi e Frinico): Filocleone ubriaco, in veste di Polifemo e accompagnato da una auleta, entra in scena eseguendo le danze di Tespi, cioè del primo tra i tragici di cui si serbi memoria e sfida i nuovi tragici: "Dice che mostrerà danzando che i tragici (τραγῳδούς) di oggi sono fuori tempo".
Il protagonista della commedia è ebbro e si presenta in scena eseguendo le danze tragiche più arcaiche. A seguire, dal dialogo con il servo, ricaviamo una descrizione di tale danza arcaica:
Filocleone: […] ecco comincia la postura (σχῆματος ἀρχή)
Servo: comincia piuttosto la follia (μανίας ἀρχή)
Fil: e il movimento piega il fianco con impeto (πλευρὰν λυγίσαντος ὑπαὶ ῥύμης). Come mugghia (μυκᾶται) la narice e la spina dorsale scricchiola. (vv. 1485-1488)
La descrizione di questo σχῆμα arcaico appare tutt’altro che composta e austera: il servitore lo accosta alla manía, cioè descrive il movimento del vecchio ubriaco come quello di uno preso da follia, il che potrebbe echeggiare l’idea della relazione con la divina follia a cui si accennava prima, in un differente contesto (Cf. anche v. 1496), ma sicuramente suggerisce un’idea di grande movimento.50 Questo viene raccontato dal servo utilizzando un linguaggio specifico e specialistico, dunque non mi pare che ci si trovi nel quadro di una descrizione estemporanea: il performer arcaico torce il fianco vigorosamente, cioè si pone in una situazione di forte disequilibrio rispetto all’asse del corpo tanto che la spina dorsale scricchiola (v. 1488).51 Dunque grande movimento e grande “spreco di energia”. Il prosieguo della scena è il punto di maggiore interesse per gli scopi della mia esposizione. Filocleone descrive la propria scelta gestuale:
Fil: Frinico si acquatta come un qualche gallo (πτήσσει Φρύνιχος ὥς τις ἀλέκτωρ) […] lanciando la gamba in alto verso il cielo
Servo: si apre il culo (πρωκτὸς χάσκει).
Fil: guardati tu. Ora infatti nelle mie membra si volge sciolta la giuntura. Non è bello?
Servo: no per Zeus. Ma sono azioni dettate dalla follia (μανικὰ πράγματα). (vv. 1490-1496)
Prima si rannicchia, come un gallo, e subito dopo il gesto esplode lanciando la gamba in alto. Dunque lo schêma è composto da due momenti: dopo uno stato di quiete, di attesa, si registra un’esplosione dinamica degli arti. In epoche e in contesti performativi diversi sembrano ricorrere dinamiche attoriali e gestioni del corpo analoghe.
Date queste incursioni in testi e documenti differenti, che chiariscono e ci confortano nella linea di analisi che propongo, mi sembra utile tornare ancora alle testimonianze che compongono il nocciolo documentale di questo studio, alla luce di tali strumenti euristici. Al di là del fatto che una seria indagine sull’attore greco non può prescindere dunque dal riconsiderare tutti i documenti sull’attore antico in un’ottica che coniughi antropologia teatrale ed indagine della cultura visiva e iconologica dei Greci, essi mostrano inoltre come i grammatici ellenistici avessero ben poco accolto l’indifferenza (contraddittoria) di Aristotele nei confronti del performer e ritenessero il linguaggio del corpo come specifico del codice tragico.
Proviamo quindi a considerare un ulteriore schêma posturale documentato in particolare nell’Ecuba di Euripide. Al v. 59 abbiamo l’ingresso sulla scena di Ecuba. Un’immagine che mostra Ecuba come “l’icona della regina madre dolente nel teatro di Euripide” e che ritorna in altri luoghi quanto meno euripidei.52 Oltre all’aspetto letterario, tale figura si propone con una sua specificità anche in termini attoriali. Nello scolio al verso leggiamo: "Uscendo dalla tenda di Agamennone [Ecuba] pronuncia queste parole, condotta per mano (χειραγωγουμένη) dalle donne di Troia per la sua impossibilità a camminare debilitata dalla sorte cattiva e dalla vecchiaia (Schol. v. 59 ed. Schwarz)".53
Una volta ancora la notazione riporta una azione degli attori: la notazione può certo essere suggerita dallo stesso testo verbale. Ma la coincidenza tra azione e parola non è, evidentemente, criterio di esclusione per l’attendibilità della notazione. Mi sembra, al contrario, che ci si ritrovi anche qui di fronte ad uno schêma ricorrente: quello appunto della madre dolente.54 Questa modalità recitativa era già probabilmente presente nella recitazione rapsodica, in cui la figura della lamentatio è citata almeno da Platone nello Ione proprio a proposito di modalità recitative (535b, 8 e sgg.):
Quando reciti […] qualcuno dei casi pietosi (ἐλεινῶν τι) di Andromaca o di Ecuba o di Priamo sei forse in te (ἔμφρων) o ti trovi fuori da te stesso (ἔξω σαυτοῦ) e la tua anima (ψυχή) ritiene di trovarsi in mezzo alle azioni che narri (λέγεις) in ragione della possessione divina (ἐνθουσιάζουσα), o che i fatti siano a Itaca o a Troia o dove si svolgano gli episodi?
Platone si occupa qui della problematica dell’enthousiasmós ma appare chiaro, dato anche il contesto generale in cui si trova questa notazione del suo trattato, che faccia riferimento alla presenza di specifici schémata rappresentativi.55
Lo schêma del lamento funebre è un altro aspetto che dobbiamo rilevare nella figura della madre dolente: al v. 736 di Ecuba, in una tragedia in cui l’aspetto della performance trenodica è determinante, abbiamo la sequenza in cui Agamennone sorprende l’eroina che lamenta la morte di Polidoro: la donna gli dà le spalle (dice Agamennone “perché piangi voltandomi la schiena e non mi dici che è successo?” vv. 739-740). Lo scolio ci informa della lettura di Didimo che esula da una semplice lettura del testo verbale e propone che Ecuba: "Parla rivolta a Polidoro e rivolta a se stessa".
Lo σχῆμα che l’attore propone è quello del personaggio accasciato su se stesso e rivolto al corpo del defunto: un’immagine della madre dolente che attraverserà per altro la cultura figurativa occidentale ben oltre il contesto dell’attore tragico greco. Un ulteriore tassello allo schêma del lamento scomposto femminile lo troviamo nell’Elettra di Sofocle, nel commento al v. 823. Ci troviamo nel kommós cantato dal coro e da Elettra e non è da escludere che l’appartenenza ad una parte corale potesse ulteriormente richiedere dinamicità di movimento da parte degli attori. Elettra piange la propria sorte e la mancanza di Oreste. Lo scolio ci informa: "Bisogna che l’attore (ὑποκριτήν) insieme al grido, volga lo sguardo al cielo e tenda le mani, ciò che il coro chiama “non emettere un grido di rivolta”.
L’attore lavora al contempo sull’aspetto vocale (pheû pheû) e sulla postura fisica, una postura che richiede la torsione del volto e la tensione delle mani, quella deîxis di cui si parla nei trattati di pantomima e che è un elemento anche della recitazione tragica. Va anche ricordata la presenza della maschera e la specifica differenza di valore che dà all’asse del corpo la presenza di questo accessorio. La tensione del collo e il valore degli arti sono amplificati dalla maschera che cambia la percezione del gesto e della postura da parte di chi osserva. Le mani in questo caso sono il volano per allungare e tendere l’asse del corpo organicamente alla tensione del collo.56 A maggior ragione appare amplificato il gesto: il valore della battuta del coro, come riporta il commentatore, assume quindi una connotazione ancora diversa nel clamore visivo rivestito dal corpo dell’attore: la tensione della scena è la tensione della recitazione dell’attore nel suo rapporto fisico con lo spazio e con la parola. Torniamo per un momento all’uso delle mani che è tornato spesso nel nostro lavoro. L’uso della mano nella postura dell’aposkopeîn, l’uso della mano per connettere gli attori tra di loro in movimento, l’uso della mano, come in questo caso, come elemento di tensione del corpo: la deîxis è appunto l’uso delle mani come ci mostra Plutarco.57 Se ne fa un uso interessante nell’Oreste di Euripide (640 e sgg.) al momento in cui abbiamo lo scontro dialettico tra Oreste e Menelao: Oreste non vuole nulla da Menelao, se non quello che egli ha avuto da suo padre e non si tratta di averi. Leggiamo nel commento: "Detto questo gli attori alzano la mano poiché Menelao contesta quanto dice che ha preso un deposito d’argento dal padre".
Il gesto della mano ha qui un significato di obiezione, di diniego. In questo caso quindi un gesto con valore di codice muto, corporeo, in valore di dialogo silente con le parole che Oreste sta pronunciando. La mano indica, la mano parla, la mano significa.58
Fin qui abbiamo dunque notato l’uso specifico di parti determinate del corpo: le mani e le braccia, le gambe, il collo, l’asse stesso del corpo; ciascuna parte è adoperata per peculiari gesti ripetuti dagli attori in specifici contesti. Il corpo dell’attore è dunque strumento linguistico, poetico potremmo dire, del codice tragico.
In principio di questo articolo, ho posto come criterio di indagine l’idea che lavorando sul lavoro dell’attore si lavora necessariamente sulla memoria o sulle memorie degli e sugli attori. In questo caso lavoriamo su memorie depositate in avanzi di commenti sul teatro tragico. Tuttavia è da notare come gli scoliasti abbiano ben chiara la differenza tra la memoria registrata e riproposta e le osservazioni sugli stili e le opzioni recitative del loro tempo. In altre parole potremmo dire che gli storici antichi del teatro appaiono consapevoli della necessità di non confondere né di mescolare usi (o pretesi usi) del teatro contemporaneo ai saperi e alla cultura materiale del teatro che ci precede. Naturalmente in questi come negli altri casi possono sbagliarsi proprio per la fallacia, l’ambiguità, i meccanismi che la memoria ha nella ricostruzione dei fatti teatrali. Ma persino l’errore può essere indice di un punto di vista e di una modalità di analisi che ci deve interessare. E in questa consapevolezza i commentatori ci testimoniano di una continuità di strategie gestuali e di saperi, pur nelle differenze di scelte specifiche: se dunque la convenzione particolare muta o può mutare quella generale rimane inalterata. Ne abbiamo un esempio dirimente nel commento all’Oreste di Euripide v. 269 in cui i commentatori propongono una differenza di interpretazione di uno schêma gestuale di quel segmento della tragedia da parte degli attori delle due diverse epoche (V secolo ed età alessandrina). Tale schêma, così come ci viene presentato, poteva esserci stato o meno, ma quanto è interessante notare è il fatto che, al di là della specifica scelta attoriale dell’attore del V secolo, gli attori delle diverse epoche conservano l’insistenza sul lavoro fisico, sul movimento e sul corpo. Nel commento leggiamo: "Seguendo Stesicoro [fr. 40 Page Poetae Melici Graeci] dice che lui aveva preso l’arco da Apollo. Bisognava dunque che l’attore (ὑποκριτήν) avendo preso l’arco dardeggiasse. Mentre quelli che recitano (ὑποκρινόμενοι) la parte dell’eroe ora chiedono l’arco e non ricevendolo assumono la postura (σχηματίζονται) di quello che dardeggia".
Secondo il commentatore la differenza tra i due modi di lavorare dell’attore risiederebbe nella presenza o meno sulla scena dell’oggetto arco. Il tratto che rimane comune è quello della dinamicità del corpo in una scena caratterizzata dal delirio del personaggio: nel suo delirio l’attore che intrepreta Oreste offre una recitazione dinamica. La scelta fisica si basa sul lavoro del corpo nello schêma dell’arciere: l’attore di età ellenistica propone al pubblico lo schêma convenzionale specifico senza l’ausilio di nient’altro che il proprio corpo.59 Sembra di notare quindi che si accentui ancora di più la pregnanza del lavoro cinetico del performer secondo le strategie posturali che abbiamo studiato di un movimento che passa dalla stasi al movimento in una sequenza dinamica. Lo scoliasta stabilisce un confronto tra le diverse modalità di recitazione ma, contraddicendo il luogo comune che vede questa differenza in una minore tendenza al movimento nel V secolo, la pone nel fatto che ai suoi tempi un’azione, svolta in precedenza tramite un oggetto di scena, corrisponde ad uno schêma convenzionale. In quest’ottica conta relativamente stabilire se già nel V secolo (come sono portato a credere) l’attore si servisse di uno schêma. Il testo del commento ci mostra l’interesse dell’osservatore per il linguaggio specifico del movimento del performer e per la modalità di esso come elemento di lettura del genere tragedia. Ci mostra il rilievo del lavoro fisico dell’attore basato su schémata che sono conosciuti, condivisi tra performer e pubblico, in cui il lavoro fisico dell’attore si evolve, probabilmente, mantenendo però caratteri omologhi e costanti tra le epoche e le forme teatrali. Una lettura trasversale di tutti i materiali che abbiamo visto, ci spinge a comprendere più analogie, quanto meno di principi recitativi, che non differenze, in particolare al momento in cui notiamo dei principi che ritornano in testi e fonti di età differenti che tuttavia mostrano una compattezza nei saperi materiali specifici dell’arte del performer che deve costituire materia di indagine, io credo, sempre più approfondita.60
Abbiamo accennato, nel corso dell’esposizione, alle analogie che il lavoro dell’attore greco presenta rispetto alle modalità dei teatri asiatici. Una osservazione meno estemporanea, seppure necessariamente parziale, può essere molto utile proprio per comprendere ed analizzare questi principi che ritornano nella recitazione greca, così come in quella di altre civiltà teatrali.
Mi riferirò principalmente ad alcune osservazioni legate al teatro giapponese. Già Albin Lesky, in un articolo di molti anni fa, si mostrava suggestionato dalla possibilità che un confronto con il teatro Nō giapponese potesse aiutarci a riflettere a comprendere aspetti specifici dell’origine della tragedia.61 Lesky era interessato ad alcune analogie di struttura e legate all’origine cultuale del teatro Nō, ancora visibili nella presenza di canto e danza, e pochissimo alla questione attoriale62 sulla quale è necessario concentrare la nostra attenzione, tralasciando gli aspetti della danza specificamente detta in rapporto con ritmo e musica che sono pure aspetti che non dovrebbero essere tralasciati in uno studio completo sull’argomento.
La prima analogia che è possibile trovare tra l’attore greco e l’attore giapponese è legata alla convenzionalità del gesto che anche nel teatro Nō trae la sua origine nella danza:
[La mimica] non è, almeno in gran parte, imitativa ma simbolica. Essa obbedisce alle norme di una lunga tradizione ed è il risultato di un processo di semplificazione, di sublimazione, di idealizzazione dell’espressione, tendente non a imitare la realtà […] ma a crearne una tutta particolare e di tono incomparabilmente più elevato. (Muccioli, 1960, p. 84).
Che il lavoro fisico e gestuale debba avere un forte grado di astrazione convenzionale è chiarito da Zeami, ma ancora più interessante mi sembra sia il punto in cui egli ci parla della necessaria tensione fisica e gestione del movimento dell’attore sia nei momenti di azione sia in quelli di assenza di azione:63
Si ha quindi una disposizione mentale che è il segreto dell’attore. Infatti i due elementi, l’azione, i diversi generi di mimica, sono, senza eccezione, tecniche che mettono in azione il corpo. Ciò che io chiamo non interpretazione, è l’intervallo [che li separa]. (Zeami, 1966, p. 178)
Tale attenzione, continua Zeami, è una sorta di “coesione mentale” tra il corpo e la concentrazione dell’attore che rimane all’erta, presente, anche nel momento in cui la mimica è sospesa. Questo principio recitativo, che stabilisce il rapporto tra le figure della mimesi (equivalenti, o quanto meno assimilabili, agli schémata greci) e il rapporto tra il corpo e il movimento, non è dissimile dalle osservazione che le testimonianze scoliastiche ci riportano rispetto alla qualità della kínesis dell’attore greco: sia le sua posture, sia il modo in cui esse di declinano nel rapporto tra quiete e azione. Ci viene da pensare all’attore che interpreta Aiace, Timoteo di Zacinto, che cattura l’attenzione del pubblico con la sua presenza in scena e con il suo movimento e la sua tensione verso la spada, riflettendo un lavoro fisico e gestuale che ci appare più comprensibile nel rapporto con analoghe civiltà teatrali a carattere convenzionale in cui analogamente il ruolo dell’attore e la specificità della sua arte ricoprono un ruolo essenziale.64 Una “non interpretazione” direbbe Zeami, in cui il corpo pensa tramite un equilibrio tra tecnica e disposizione mentale: un pensiero in movimento definibile secondo le osservazioni di Barba in merito al thinking in motion, un pensiero che non si fa concetto ma informa una strategia di movimento in cui la ridondanza del segno definisce la complessità della relazione emotiva che si stabilisce tra lo spettatore e il perfomer.65 Questo aspetto è presente nei teatri asiatici e appare esserlo anche nelle forme teatrali greco romane in generale e nel lavoro dell’attore tragico per come si va definendo nel presente studio.66
Già Marotti nel 1976, cercando di definire alcune strategie di metodo nell’osservazione delle tecniche gestuali dei teatri asiatici, aveva proposto acutamente alcune osservazioni che sono da tenere presente quando si studia l’attore greco antico. Marotti classificava i gesti sulla base della funzione che avevano (per esempio gesti respiratori, gesti di assestamento), della loro origine (legati alla trance), della semantica (gesti che significano e gesti che non significano più).67 Alcune di queste tassonomie sono senz’altro utili già nella classificazione della gestualità che ho evidenziato in questo studio: i gesti legati alla possessione, per esempio, che sarebbe interessante studiare con un occhio specifico per comprendere quanto siano da inserire esclusivamente nel contesto della finzione scenica e quanto invece non siano legati allo stato di enthousiasmós che doveva trovarsi nella nozione di recitazione.68
Il raffronto con i teatri asiatici ci è utile anche nel momento in cui scendiamo nello specifico del lavoro gestuale. Abbiamo visto che i riferimenti alle posture gestuali (σχήματα) che riscontriamo negli scoli sono spesso parziali, degli accenni, che necessitano per una comprensione e lettura a tutto tondo di essere integrati con altre fonti e materiali. Proprio il confronto con il lavoro fisico e con i suoi principi in altre civiltà possono avere un ruolo non secondario in questo lavoro di esegesi del gesto. Prendiamo lo schêma dell’arco a cui accennano i commentatori a proposito dell’Oreste di Euripide, v. 269. Osservando il modo in cui lo stesso schêma si articola nella recitazione del teatro Kyogen giapponese, abbiamo modo di constatare che l’attore lavora su un processo di tensione fisica che rispetta, pur nella peculiarità della postura in movimento dell’arco, alcuni principi di recitazione che ritornano sovente nella pratica attoriale.69 In particolare ciò che emerge con evidenza è la necessità di mantenere un asse di equilibrio del corpo che nasce da una tensione muscolare che non è data dai muscoli delle braccia ma al contrario dai punti di appoggio del corpo, che nella fattispecie sono dati dalle ginocchia. La convenzionalità dello schêma è particolarmente chiara nella fase che segue lo scoccare della freccia: la tensione delle braccia scompare suggerendo allo spettatore che la tensione è diventata movimento, che scompare quindi dal corpo dell’attore per trasferirsi nella stessa relazione con lo spazio; abbiamo quindi un movimento tripartito tra tensione, enfatizzata dal punto di appoggio, il movimento, che si scarica nello sciogliersi della tensione delle braccia, lo stato di quiete del corpo. Che però rimane, come suggerisce Zeami, nello stato di “coesione mentale” con il corpo. Cosa ci può dire questa osservazione rispetto al lavoro dell’attore greco sulla schêma del tirare con l’arco? Ci offre senza dubbio un paradigma di riferimento tanto più valido quanto più poggia su principi fisici che ritornano e che sono osservabili in contesti e civiltà teatrali differenti. Ci sollecita ad una osservazione più specifica, oltre che delle testimonianza erudite e letterarie, della cultura figurativa che può informare ed essere parziale paradigma, sempre con un alto grado di elaborazione e specificità del lavoro fisico, dell’attore.
Quali sono dunque le prime conclusioni a cui possiamo arrivare nel presente lavoro?
In primo luogo va sottolineato l’importanza dei commenti scoliastici in quanto serbatoio di informazioni e punto di vista materiale sul sapere e la cultura dell’attore greco. Un attore che propone specifiche strategie fisiche che hanno nel rapporto tra stasi e movimento il centro essenziale della dinamica attoriale. Il movimento dell’attore non presenta alcun carattere di estemporaneità ma è legato a specifiche posture fisiche che sono dettate da uno specifico codice: di tutto ciò ci informano gli scoli. Ci informano su modalità e posture gestuali che sono da considerare come elementi strutturali di composizione, struttura e lettura dell’evento spettacolare tragico, proprio secondo i paradigmi di lettura dell’uomo greco. Tale concezione è a più forte ragione evidenziata proprio dalla qualità dell’osservazione scoliastica.
I filologi ellenistici assumono infatti categorie di analisi che provengono dalla scuola di Aristotele ma si distaccano dalle sue posizioni più militanti, testimoniando l’assunzione di un punto di vista che era quello della cultura diffusa del loro tempo. All’interno di una cultura che rimane fortemente legata alla performance, e in cui il dato della spettacolarità assume un ruolo sempre più marcato, l’aspetto della teatralità e quello della messinscena non sono affatto espulsi dall’elaborazione culturale alta, anzi vi restano saldamente ancorati come strumenti di esegesi che informano non solo le operazioni critiche concernenti la tragedia e la commedia ma si insinuano anche come chiavi di descrizione di differenti operazioni poetiche. A livello alto non si consuma dunque quel divorzio vagheggiato da Platone e da Aristotele tra spettatori mediocri (phaûloi, phortikoí) e sofisticati (spoudaîoi, beltíous) che avrebbe dovuto compiersi proprio sul tema della tragedia come evento performativo e del suo linguaggio. Per quanto esista, fin dal V secolo di Aristofane comico, una distinzione tra spettatori più o meno sophoí, le maggiori o minori perizia e cultura di questi non confliggono con una concezione performativa della poetica e della tragedia in particolare: l’atteggiamento aristotelico è, nella migliore delle ipotesi, un atteggiamento minoritario circoscritto ad una ristretta élite ma non rappresenta né il sentire diffuso della civiltà greca, né a ben vedere quello delle classi e dei circoli colti che ad ogni modo non possono che essere integrati in quella civiltà, in cui peraltro era integrato lo stesso Aristotele, tanto da non riuscire a proporre un coerente sistema di pensiero che suffragasse le sue ipotesi. Nel quadro della loro attività i filologi ellenistici trasmettono e costituiscono un importante patrimonio di notizie e letture che informa gran parte delle successive operazioni e riflessioni inerenti il teatro: essi dispongono di materiali e fonti che consentono loro di studiare gli aspetti dello spettacolo consegnandoci preziosissime notizie e punti di vista di ordine teorico e teatrologico.
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Nota
Recepción: 21 Enero 2024
Aprobación: 25 Marzo 2024
Publicación: 01 Junio 2024